Dino Ferruzzi - Aprile 2020
Chiusi dentro le nostre mura, produciamo patologie regresse per essere sempre più presenti sugli schermi di tutti i nostri strumenti elettronici. L’impossibilità di non vedersi fisicamente, ci spaventa per davvero? No. Ci spaventa l’idea di non poter essere parte viva del grande Luna Park mondiale. E allora ecco che si consolida, in maniera traumatica e nell’insufficienza dei corpi, il bisogno di apparire e di mostrare a ritmi deliranti, le nostre personalità ormai asocializzate. Non siamo prigionieri delle nostre mura, ma del nostro sistema di comunicazione sempre in accellerazione, insostenibile come il crash prodotto dalla malattia che ci sta di fianco. La condizione che stiamo vivendo è una conseguenza di un sistema che è giunto a saturazione, di un universo, che per ritornare ad esistere dovrebbe riprodursi in una nuova grande esplosione iniziale. Oggi mi sto preoccupando dei miei studenti, per incontrarli dovrei preparare le lezioni a distanza e non ne ho voglia. Forse nemmeno loro ne hanno voglia, nonostante siano figli nati e allevati negli ambienti neuronali dei social. Il discorso sulla didattica a distanza si fa concitato, diventa sempre più incalzante, penetra nelle nostre esistenze come una innovativa soluzione che finalmente dovrebbe risolvere il problema enorme della formazione culturale delle future generazioni. Questa dunque sarebbe la soluzione salvifica che i nuovi Guru dell’imponente macchina dell’educazione ufficiale stanno preparando. Più si cerca di pensare l’educazione, più essa ci sfugge nel suo significato più autentico. Il cortocircuito innescato dal Covid 19, è un buon tempo per continuare a vivere, un tempo che necessita di una presa di coscienza che va oltre la logica del tempo massmediale. Dovremmo ammutolirci tutti, silenziarci, vivere sospesi, per poter riaccostare l’orecchio e l’occhio a un ritrovata capacità di comprendere la società in cui viviamo. Intanto passano veloci le ambulanze a sirene spiegate, trasportano corpi stremati e febbricitanti, negli accampamenti disposti nei parcheggi dell’ospedale di Cremona. Siamo catapultati in una enorme macchina di accecamento collettivo, di alterità radicale concepibile solo secondo le logiche di un conformismo spaventoso. Non posso distrarmi. Ho bisogno di mettere a fuoco qualcosa da raccontare ai miei studenti, tra qualche ora sarò collegato online come la trasmissione televisiva del maestro Manzi “Non è mai troppo tardi”. Ma cosa dovrei raccontare oggi ai miei studenti? Seduti a puntare gli occhi su uno schermo, tutti insieme e separatamente. Ecco l’abbraccio funesto delle politiche della vita e della tele-tecnoscienza, un intreccio di comunicativo e cognitivo generalizzato, un luogo senza invenzioni. Questo tempo smarrito nel nulla prende il nome di buone pratiche. Il che alimenta, in tutta questa emergenza, una sorta di “autoimmunità dell’educazione che, più viene pensata, considerata nella sua esistenza, modellata, sottoposta a buone pratiche, obiettivi, progetti, valutazioni, proposte culturali, interculturali o quant’altro, più viene necrotizzata, sciupata e mercificata”. Ecco dunque il buon tempo della sosta. Ma un giorno si dovrà pure uscire, andare all’aria aperta. Se si rimane dentro non si produce un futuro che superi la copia, scriverete libri fatti di libri, fisserete immagini fatte di immagini, certo forme istruite che concorrono all’istruzione, ma il fine di quest’ultima non è se stessa. Bisogna uscire. Una volta fuori cosa faremo? Dovremo cercare altre possibilità. Ritornare all’inizio. Eppure, l’inizio ha un luogo sul serio, bisogna conoscere un po' di geografia per raggiungere le rive del Po. “Un certo disordine favorisce la sintesi” direbbe Michel Serres. Dirò ai miei studenti che di giorno mi dedico all’agricoltura selvatica, non sono un agrimensore, e di notte continuo a disegnare come un infante, ad interessarmi al lavoro della mia mano che traccia segni sopra segni, faticando come un artigiano che suda abbondantemente. “Creare: dedicarsi a questo dall’alba all'agonia”. Trasudare, lungo i tracciati in salita per dozzine di chilometri. Bisogna allenarsi. “Volete inventare o produrre? Cominciate con la palestra, con sette ore regolari di sonno e con un regime alimentare. La vita più dura è la disciplina più esigente: ascesi e austerità. Resistete con tutte le forze ai discorsi imbonitori, che pretendono il contrario. Tutto ciò che debilita sterilizza: alcool, fumo, lunghe veglie e farmacia. Resistete non solo alle droghe narcotiche, ma soprattutto alla chimica sociale, di gran lunga la più forte e dunque la peggiore: ai media, ai modi conformisti. Tutti dicono la stessa cosa e, come il flusso dell’influenza, tutti discendono insieme la china generale”. Disegnate e create perché l’arte deriva da una “disposizione unica dei neuroni e dai vasi sanguigni. Mai dalla banalità collettiva”. “Chi non inventa lavora lontano dall’intelligenza”. Un giorno usciremo, ma “non dimenticate che i media ripetono ciò che dicevano coloro che li occupano oggi, quando avevano vent’anni: sono dunque in ritardo di una generazione e talvolta di due. Bisogna cercare allora appassionatamente ciò che siete e non ciò che dicono voi siate. Non ascoltate nessuno. Resistete al torrente e alle influenze. Resistete alle medaglie” Ore 15.50, mancano pochi minuti alla lezione on line con MEET. Nel dizionario italiano MEET sta per “raduno di coloro che partecipano a una battuta di caccia a cavallo”. Sono io dunque in scena grazie alla relazione menzognera che filtrerà la mia immagine come vera maschera? Chi siamo noi corpi mischiati, costellati, cangianti? Quando i nostri sguardi si incontreranno avvertiremo la solitudine liquida sbranata dai rumori dei microfoni. Ci siamo ragazzi? Avete inserito il codice d’accesso? Sistemate l’audio… Nei pochi secondi che mi separano dalla lezione penso che il problema che si deve affrontare parte da una domanda: quale politica dell’educazione ci aspetta dopo il Covid 19? Non ho il tempo di riflettere abbastanza, devo velocemente serrare i tempi per presentarmi agli studenti che aspettano di entrare in collegamento. Mi devo pettinare per essere più presentabile. Istruire. Teach Back. Quando pian piano ognuno inizia a chiudere il collegamento, il programma inghiotte i “ritratti digitali”, per un attimo ecco apparire delle forme circolari su cui sono ben evidenziate, in incognito, le singole lettere assegnate ad ognuno quando non si è in linea con la telecamera. Nessuno può accorgersene, sono rimasto ultimo ad abbandonare la nave, stupito seguo le lettere che via via spariscono, rimangono solo sei lettere a formare stranamente la parola D I M O R A. Giorno. Eppure l’inizio ha luogo sul serio.
Dino Ferruzzi - insegna presso l’IIS Liceo Artistico Stradivari di Cremona nel 2016 ha pubblicato nelle Edizioni Postmedia Books, il libro CRAC TEN YEARS 2004 – 2014 Arte, educazione, formazione, lavoro, spazio pubblico.
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