Giovanni Lanzone - Aprile 2020

Come stiamo costruendo “ponti” dall’interno verso l’esterno delle nostre case?
Faccio come tutti: uso di più i social, ho imparato a far lezione attraverso una piattaforma digitale (ma anche leggo e dormo di più). Tuttavia vorrei segnalarvi una preziosa citazione del maestro di Königsberg, Immanuel Kant. L’ho scovata in un bel libro di Aldo Schiavone sull’uguaglianza, dice: tutti gli uomini sulla vasta Terra appartengono a un medesimo genere naturale, perché essi generano fra loro sempre figli fecondi, per quanto possano esserci grandi diversità nel loro aspetto. Dice Kant che la generatività è propria degli uomini, la tecnica è altrettanto importante ma l’abbiamo acquisita dopo. Torneremo, dunque, a generare, a produrre, a scambiare e le città torneranno a riempirsi di gente. Voglio fare una considerazione su questa storia del distanziamento o dell’isolamento di cui oggi si parla a sfare. Penso, al contrario di molti, che educare voglia dire portare appresso, richieda la seduzione dei corpi, dei gesti e delle voci (occorrano tutte queste cose per far crescere gli studenti), è questa la lezione immortale di Platone nel Fedro, che Giorgio Agamben ha letto in modo forte e chiaro. Credo che, finita l’emergenza e, mettendoci in tasca quel che si è imparato sull’insegnamento a distanza, si debba tornare a quella didattica calda e di prossimità che la Montessori e Malaguzzi e Munari ci hanno insegnato a fare. "Ruzzolare" è verbo che mi è venuto in mente per esprimere questo pensiero. Credo che per alcune cose e in alcuni campi, il concetto di remoto bisogna lasciarlo come declinazione di un verbo al passato. Ruzzolare è parola che mi piace più di chattare.

Come rigenereremo la nostra socialità e gli spazi comuni?
Gli ospedali che riempiono i nostri schermi, i medici e gli infermieri che si prendono cura, le persone vere in carne e ossa che appaiono in televisione tutti i giorni con le loro belle facce segnate dalla fatica e dalle mascherine, lo spreco della parola eroi. Dobbiamo ricordarci di tutto questo, non solo per magnificarlo oggi, non solo, dobbiamo ricordarci di chi l’aveva detto in tempi non sospetti. Penso al più grande degli intellettuali francesi, Michel Serres, un uomo riservato che la malattia si è portato via l’anno scorso e che aveva anticipato tutto questo in un prezioso libricino: Darwin, Napoleone e il Samaritano. Dobbiamo ricordarcene nel dopo che sarà presto. Cura è parola assoluta e salvifica che non deve tornare nel repertorio delle parole abusate: cura degli uomini come i sistemi della sanità hanno fatto in questo tempo pauroso di epidemia, cura della terra come se fosse (ed è) la nostra casa e cura del prodotto come se dovesse accompagnarci non per un giorno ma per tutta la vita. Il titolo di un bel libro di Jonathan Safran Foer può esserci da guida: occorre lavorare come se tutto dovesse essere illuminato. Il timore di quel gran genio di Walter Benjamin era che i prodotti dell’arte avrebbero perso "aura" con l’avvento della tecnica, non è stato così perché cinema e fotografia hanno affiancato l’arte estendendone i confini. Ora come aveva intuito il surrealista André Breton e come il design ha continuato a fare, bisogna stendere l’aura (che è passione, intelligenza e cura) a ogni atto della vita quotidiana come se fossimo i creatori e i curatori di un’unica grande, infinito giardino di opere. Non costa di più, è solo meglio. Penso che l’arte, sempre di più come la mappa di cui racconta Jorge Luis Borges, Del rigore della scienza, debba appoggiarsi al territorio. Il Collegio dei Cartografi lavorava a una mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Il punto è che oggi quei cartografi, nell’era di Google Maps, siamo o dobbiamo essere tutti noi.

Come interverremo per ristabilire un equilibrio tra l’uomo e la natura?
Credo che questo processo sia in moto da molto tempo. La battaglia contro le esternalità negative del vecchio sistema industriale era già cominciata e mi auguro verrà rafforzata dalla pandemia. La salute della comunità che viene prima delle sue capacità produttive è un insegnamento che in Italia è stato scolpito nella carne della gente dalle tante battaglie contro il potere inquinante degli altiforni, dal processo Thyssen-Krupp per disastro colposo, ma soprattutto dall’eroica lotta, di pochi prima e di molti poi, contro le filiere produttive dell’Eternit e dell’amianto. Ma non sono state solo le lotte a rendere conto di questi processi di avanzamento della produzione, c’è anche un’intima e progressiva riforma del capitalismo per il quale il cambio dei materiali e dei processi costruttivi, la miniaturizzazione, l’automazione (disintermediazione e robotica) sono diventati processi di fondo, in se vantaggiosi, che hanno contribuito a cambiare, dall’interno, le filiere della produzione dell’Occidente. A una domanda dei miei studenti sul futuro dell’impresa dopo la pandemia, ho risposto che non credo che i livelli di qualità e di sicurezza conquistati in questi decenni nello sviluppo del prodotto facilmente regrediranno, tre movimenti li hanno condizionati: una più rigorosa difesa dell’eco sistema, la bellezza che sormonta la funzionalità come accade nella rivoluzione gentile del design italiano e l’organizzazione snella, un movimento risparmioso nei processi di produzione, come è stato proposto dai giapponesi. Questa tendenze sono molto forti nei processi produttivi più avanzati (Barilla e Samsung, Tesla e Dyson), e si sono dimostrate anche tendenze vantaggiose per i sistemi industriali, continueranno e verranno rafforzate dalla terribile temperie che abbiamo vissuto. Vedo un analogo andamento nei percorsi individuali di riciclo e di risparmio. C’è ancora molto da fare, molta inerzia, molta supponenza e molti problemi tecnici da risolvere ma la traiettoria oggi è diversa da quella che era in atto solo vent’anni fa.

Cosa stiamo imparando da questo tempo?
Forse è meglio dire cosa dobbiamo imparare o cosa dovremo imparare. Come diceva Flaubert è sempre meglio chiudere le frasi, almeno certe frasi importanti, con un punto interrogativo. E’ evidente che la cura delle pandemie richiede un surplus di scienza è un aumento delle capacità di fare sistema, un tempo si sarebbe detto che richiede anche un più di compassione divina è ancora oggi, poiché la realtà è stratiforme, il Papa prega e invoca il crocefisso della peste e noi gliene siamo grati. La pandemia, più di tante parole, serve a farci vedere che gli uni senza gli altri semplicemente non esistiamo, e che questa storia infame che ogni uomo è un’isola è vera quando ci guardiamo nello specchio dell’ordinario, quando imbellettiamo il nostro volto, ma appare inevitabilmente falsa quando soffia il vento della tempesta. La consapevolezza che quel che facciamo - come individui - ha un’inferenza sociale grande e, tuttavia, è la società (la totalità dei pari) e non l’individuo a definire i veri avanzamenti del fenomeno umano. Questo l’elemento chiave che dall’insondabile azione del virus si dovrebbe imparare. Dico si dovrebbe, perché questo richiede la capacità collettiva di costruire un pensiero di comunità sulle questioni chiave che riguardano il futuro prossimo e occorre che questi pensieri comuni abbiano la capacità di influenzare la politica e la finanza. Ma la saggezza antica sapeva, e Manzoni ce lo ripete, che "l’unica cosa che insegna la storia è che la storia non insegna mai nulla". Dunque dobbiamo procedere con determinazione e non sarà facile perché passata la tempesta tutti vorranno tornare ai comportamenti usati (torna il lavoro usato, risorge il rumorio e la gallina tornata in su la via ripete il suo verso). Invece come ha detto la Regina Elisabetta nel suo saggio e stringato discorso agli inglesi (quattro minuti) occorrerà nei mesi a venire agire: con comprensione reciproca ma anche con cortese determinazione. God save the Queen.

Giovanni Lanzone - Business Design consultant and advisor at Business Design in Domus Academy
#pensierieprogettidipersonecuriose


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