Giuliana Ciancio - Giugno 2020
L’ultimo decennio è stato caratterizzato da un susseguirsi di eventi di natura globale che hanno inciso sulla nostra nozione di libertà e democrazia. Giusto per menzionarne alcuni: la crisi del 2008, l’Austerity e il diffondersi di proteste nel 2011; il terrorismo; Brexit; l’emergenza dei rifugiati di approdi sicuri e l’ascesa di forme populiste a base nazionalista. In un contesto globale già fortemente trasformato dai significativi cambiamenti politici ed economici, recentemente si è inserita la crisi su scala globale generata dall’emergenza pandemica che ha reso quanto mai evidenti le contraddizioni del nostro tempo. Primo tra tutti è emerso il conflitto tra uno spazio globale fortemente interconnesso e la spinta opposta degli stati nazionali a riaffermare la propria egemonia. In modo lampante abbiamo visto quanto sia difficile cooperare per un bene comune e, quindi, far circolare risorse economiche e informazioni. Secondo, è risultata evidente la diffusa precarietà economica e politica nella quale diversi settori versano, tra cui quello culturale, che, al contrario di altri settori, è stato uno spazio di panacea per affrontare il trauma sociale che tutti stiamo attraversando.
Non è facile dire cosa rimarrà di questo tempo, ma sicuramente dai primi contagi registrati inizialmente in Cina (nello scorso gennaio 2020) fino a questa nuova fase di parziale ripresa (nel maggio 2020), abbiamo attraversato diversi stati ‘emotivi’ che forse possono darci delle indicazioni sulla temperatura sociale.
La crisi pandemica si è inserita in un rapporto già complesso tra le istituzioni (nazionali, europee, internazionali) e i cittadini. Da un lato, una prima fase è stata caratterizzata dalla paura diffusa di essere contagiati, a questa si sono susseguite una varietà di manifestazioni di solidarietà (i tanti artisti che hanno regalato alla comunità il proprio lavoro per attraversare insieme il trauma, o le diverse forme di mutualismo innescatesi nei condomini, nei diversi quartieri delle città). Oggi, a circa 3 mesi di distanza, dopo una serie di decreti e misure governative attivate per fronteggiare la crisi, la paura inizia ad essere sostituita dalla frustrazione e dalla conseguente rabbia soprattutto in quelle fasce e gruppi sociali già caratterizzati da una precarietà diffusa o da una tipologia di lavoro di carattere intermittente, come ad esempio il caso del comparto culturale e dello spettacolo dal vivo (e non). Quest’ultimo è stato fortemente colpito essendo sia lo spazio della socialità che il luogo che racchiude bellezze e storture della recente storia politica italiana.
Probabilmente mentre da un lato, ricorderemo le strade vuote delle nostre città, le fila ai supermercati, le cantate ai balconi, i cieli tersi e il profumo di primavera che non avevamo più visto così dirompente; dall’altro, questa sospensione a cui siamo stati tutti esposti (e che ci ha portato anche a convivenze forzate), ora è stata superata da una difficile ripresa e da una distanza (talvolta eclatante) tra i decreti governativi disegnati per fare fronte all’emergenza sanitaria ed economica e le reali necessità dei cittadini. Zygmut Bauman ha ben descritto ‘la crisi di fiducia’ che in seguito alla crisi del 2008, ed ai programmi di Austerity ha sancito lo scollamento tra chi disegna le politiche e la società civile. Questo ha dato spazio ad un diffuso stato di disaffezione alla Cosa Pubblica e, al tempo stesso, al diffondersi, nel 2011, di proteste globalmente interconnesse, ma saldamente ancorata ai propri contesti locali, che hanno reclamato la partecipazione civile che è uno dei pilastri delle nostre democrazie. Siamo in un contesto economico, politico e sociale molto diverso rispetto al 2008, ma osservare la temperatura sociale (e i cambi di paradigma del nostro recente passato) può aiutarci a comprendere quali possano essere i processi di negoziazione da attivare per trovare risposte concrete a questa difficile transizione.
L’online è stata una fonte di supporto alla forzata mancanza di socialità. Si sono moltiplicate le piattaforme, l’online si è offerto come luogo di incontro, di studio, di sperimentazione artistica, un nuovo spazio che ora dobbiamo ricollocare nella nostra nuova vita offline. In tanti, nell’era ‘pre-Covid’ eravamo già abituati a lavorare da remoto, e quindi ad incontrarci, fare riunioni con colleghi disseminati in altri luoghi. Con l’emergenza pandemica, l’online si è sostituito ai viaggi e agli spostamenti che già osservavamo come non più sostenibili per l’impatto sull’ambiente. Personalmente occupandomi di cooperazione culturale, ho potuto partecipare in questo periodo ad attività di networking con reti europee che hanno collegato tanti professionisti disseminati in Europa (e non solo), seguire dibattiti curati da organizzazioni culturali delle più diverse, incontrare allo stesso tempo colleghi con cui non sarebbe stato facile condividere arene pubbliche.
Al tempo stesso, questo spazio bidimensionale ha accentuato il digital divide, ponendo un importante tema sull’accessibilità e sulla questione di classe all’interno della nostra società. Vivere online significa avere una connessione veloce e affidabile, avere un computer a nostra disposizione, una casa abbastanza grande in cui poter alternare vita personale, lavorativa e, nel caso di famiglie numerose, essere dotati di più computer e spazi necessari per poter svolgere le nostre vite digitali. Abbiamo visto come l’accessibilità è stata fortemente ridotta per quelle categorie più deboli, anziani, portatori di malattie degenerative (come Parkinson o Alzheimer), o un’ampia fetta della nostra società non alfabetizzata. Inoltre, abbiamo osservato che l’online, se non continuamente contaminato, limita la compresenza di diversi contesti sociali, favorisce quei processi di omofilia (ossia di creare dialogo solo tra simili) e quindi, mentre siamo convinti di agire in un mondo allargato, di fatto siamo in un piccolo villaggio digitale talvolta molto autoreferenziale.
Nel caso della produzione culturale l’online ha posto un problema importante, ossia il riconoscimento della dimensione economica delle prestazioni artistiche che inizialmente, come già detto, sono stati doni alle comunità, ma che presto non hanno potuto proseguire in questa dimensione di gratuità. Credo che tutto quello che abbiamo imparato nel bene e nel male rimanga un capitale importante che potrà aiutarci ad immaginare una sostenibilità diversa delle nostre vite future. Alternare la vita offline e online in modo più strutturato e consapevole potrebbe aiutare ad avere un approccio più sostenibile (riducendo viaggi, valorizzando tecniche di dialogo a distanza, attribuendo anche una dimensione economica alle sperimentazioni culturali ed artistiche). Rimane chiaramente imprescindibile che la socialità è parte sostanziale del lavoro culturale (e delle nostre vite) e che chiaramente non può essere messa in discussione nel nostro prossimo futuro.
Nei processi di rigenerazione, la cultura, come abbiamo già visto in passato (e soprattutto nei momenti di forte trasformazione) ha un ruolo cruciale. Tra i tanti eventi a cui stiamo assistendo e partecipando di questi tempi, ci sono quelle azioni che nascono dalla condivisione di riflessioni e che stanno elaborando strumenti per immaginare insieme ‘un futuro migliore’.
Tra questi, i tanti tavoli di lavoro e reti informali emersi in Italia nel settore culturale (con particolare vitalità nel settore dello spettacolo dal vivo), che stanno protestando ed elaborando proposte a difesa del settore e della quantità di lavoratori culturali non considerati dai recenti decreti governativi.
Un altro caso è il network IETM (International network for contemporary performing arts) che con il suo ‘Re-writing the network’ dal 2019 ha attivato un processo decisionale collettivo sul proprio futuro con i suoi oltre 400 membri (disseminati in 50 paesi). Nel ripensare i propri obiettivi, il network europeo sta lavorando nella direzione di fornire indicazioni sulla sostenibilità (umana, politica, economica) delle performing arts.
Oppure, vorrei qui citare l’Asilo di Napoli che, tra le sue molteplici attività, sta conducendo un processo di riflessione all'interno del progetto europeo Cultural and Creative Spaces and Cities con l’obiettivo di elaborare indicazioni per il policy-making e policy advice nell'ambito delle politiche culturali con una prospettiva bottom-up.
Tutti questi processi siano essi europei, internazionali, nazionali o locali, attualmente sono cruciali per rigenerare le nostre socialità e gli spazi comuni e, soprattutto (anche alla luce della crisi generata dall’emergenza pandemica) stanno riportando ancora una volta al centro la partecipazione civile che, come già detto, è parte fondante delle nostre democrazie. Questi luoghi, come già avvenuto in passato, possono essere delle arene privilegiate per avviare quelle negoziazioni indispensabili per la creazione di politiche future.
Un altro tema legato al periodo di lockdown è stato quello della natura e a quanto ci è mancata, ma probabilmente noi non siamo assolutamente mancati alla natura. Nel momento in cui lentamente le nostre vite sono riprese anche se solo parzialmente, il colore dei nostri cieli è cambiato. Probabilmente cosa stiamo imparando ora è che non esiste sostenibilità ambientale senza una sostenibilità politica. Questo significa avere delle società accessibili ed inclusive, dotate di servizi pubblici, infrastrutture culturali, sanitarie, sociali, trasporti. Significa favorire quei processi che agiscano in rispetto dell’ambiente, ma senza penalizzare quei segmenti di società più deboli.
E in definitiva: Cosa stiamo imparando da questo tempo?
Il contesto culturale italiano è un ricco ecosistema caratterizzato da una varietà di pratiche artistiche, sistemi associativi, modelli organizzativi, istituzioni. Tutte le pratiche e i suoi attori non sono riconducibili ad un unico modello produttivo né tantomeno ad un’unica tipologia contrattuale. Proprio il ricco arcipelago di forme contrattuali, inizialmente nate per rispondere alla varietà di prestazioni professionali, nel tempo ha invece creato una frammentazione del comparto ed una progressiva precarizzazione. Ad esempio, l’abuso di professionisti a partita Iva (o forme collaborative più o meno continuative) è diventato spesso un’arma per far fronte ad una riduzione dei costi dovuti ai continui tagli della spesa culturale. Puntuale letteratura è stata prodotta in materia di recente , ma quello che ci interessa sottolineare qui è che uno degli effetti collaterali di questa progressiva discrepanza tra il lavoro culturale e il suo inquadramento normativo (e progressiva precarizzazione) ha comportato una drammatica riduzione del ‘potere contrattuale’ del settore (anche dovuta ad una rappresentanza che non ha saputo elaborare strumenti per interpretare un mondo in cambiamento) e, quindi, la difficoltà a cooperare, consorziarsi e insieme proporre cambiamento.
Questo stato di cose non ha permesso e tuttora limita la costruzione di un sistema di fiducia.
Oggi, stiamo di nuovo imparando che fidarsi gli uni degli altri è difficile, ma che stare insieme è cruciale e che può aprire il varco a nuovi possibili modelli di co-esistenza civile. Stiamo imparando che per cooperare dobbiamo perdere qualcosa per guadagnare molto di più insieme dopo, e, quindi passare da un approccio ego-sistemico ad un eco-sistema di comunità . Stiamo osservando quanto lo spazio culturale possa essere il luogo in cui artisti, la società civile e policy-makers possano incontrarsi per immaginare insieme futuri possibili, ma che questo non può prescindere dalla consapevolezza che la precarietà in cui viviamo viene da lontano e questa non possono tardare più risposte concrete.
In questo processo, quella fiducia indicata da Bauman è indispensabile, soprattutto nel momento in cui dobbiamo ricostruire e seriamente riprogettare la nostra società. Stiamo riscoprendo che costruire un sistema di fiducia significa agire su un territorio in cui le regole siano inclusive e chiare per tutti, la redistribuzione delle risorse sia trasparente e dove l’obiettivo politico sia alla base della creazione della comunità. Questa è la sfida più grossa sulla quale ci stiamo misurando tutti oggi e in base alla quale potremo dire cosa abbiamo effettivamente imparato in futuro.
Giuliana Ciancio - Cultural manager, ricercatrice e docente nel settore culturale
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