Manuela Gandini - Giugno 2020

Cosa rimarrà di questo tempo?

Rimarranno immagini. Le immagini di persone intubate, di medici esausti e di colonne di camion militari colmi di cadaveri. Rimarrà una grigia sensazione di liquefazione sociale. La narrazione quotidiana dei tg e dei talk-show sarà sullo sfondo, mentre la memoria collettiva cercherà di stingere e sbiadire il dramma per trasformare la violenza del trauma in qualcos’altro. Se c’è stato un momento nel quale l’Italia si è sentita un corpo unico, è durato pochissimo eppure un brivido condiviso è corso da un balcone all’altro e le innumerevoli voci sono diventate una. Rimarranno i negozi e i locali vuoti che non riapriranno, ma anche esperienze spirituali di autoanalisi che non si credevano possibili. Lo spazio pubblico – abolito per tre mesi – è diventato uno spazio psichico privato, e anche un po’ psicotico nel quale rifugiarsi. Ad esempio la mia casa è diventata la mia città: la cucina (il ristorante), il luogo di meditazione (il tempio), l’aula universitaria (il computer), la palestra (il tappetino), il giardino (il bosco), la televisione (il cinema).
Difficile non sentirsi disillusi dall’aver creduto in un istantaneo miglioramento della coscienza umana. Ma la mia decisione è di proseguire nell’impegno dell’autoriforma, nella determinazione della mia rivoluzione umana perché, come diceva Joseph Beuys, “La rivoluzione siamo noi”. E dunque l’impegno - non diverso dall’era pre-covid19 – è quello di portare al di fuori di me valori più solidi e luminosi di convivenza e condivisione. Così detto sembra un precetto catto-comunista, ma un conto è proferire uno slogan, un altro è mettere quotidianamente in pratica il proposito. Ciò che mi è successo è che la riduzione dello spazio esterno a interno domestico e la limitazione delle attività fisiche, hanno paradossalmente esteso e moltiplicato il mio spazio psichico. E’ stata l’ora delle grandi pulizie. La distanza la stabiliva il tempo, scandito entro le mura di casa, e non lo spazio.
Proprio oggi, che dobbiamo mantenere le distanze tra di noi e indossare tutti la mascherina, risponderò con un’affermazione che fece Jannis Kounellis anni fa, durante la Troika, rispondendomi alla domanda “Ce la faremo?”. Con il suo accento greco e la voce intensa disse: “Bisogna andare incontro all’altro, guardarlo, negli occhi, ascoltare il suo respiro. E’ questo l’unico modo”.
Il Coronavirus ha dato all’umanità una grande occasione a un prezzo altissimo. Non so quante persone abbiano afferrato il messaggio. Mai in occidente la morte è stata così terribilmente vicina, visibile e massificata. La malattia tuttavia non riguarda solo quel virus, ma l’intera rete dei rapporti tra gli esseri umani. E tra noi e il Pianeta. La domanda su come interverremo per ristabilire un equilibrio tra l’uomo e la natura è mal posta perché presuppone ancora una separazione. Come possiamo continuare a pensare nella dualità uomo/natura e coltivare il desiderio di risolvere la frattura? Io sono natura, voi siete natura anche se ci siamo interamente artificializzati. Credo che lo sforzo dell’arte sia quello di contribuire a elevare la coscienza e formare pensiero critico e creativo tra i cittadini. Non è una novità ma è una necessità sempre più impellente. È importante lavorare all’assottigliamento della distanza e della separazione. Sembra paradossale proprio oggi che si parla di distanza sociale. Questa è l’occasione per risanare le relazioni. La distanza da rivedere è quella stabilita dalle gerarchie, dai ruoli, dagli squilibri tra i generi e le razze. Quando e se sapremo afferrare l’interdipendenza tra tutte le cose, dopo un lavoro massacrante, potremmo arrivare finalmente a godere del concetto di Vita senza che ci sfugga perché siamo impegnati a fare altro.

Manuela Gandini
#pensierieprogettidipersonecuriose


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