Marco Mancuso - Maggio 2020
La sensazione è che questo lungo periodo di quarantena, che nella fase più acuta è durato due mesi e ora prosegue in una fase ammorbidita ma altrettanto straniante, abbia evidenziato ed accelerato quel processo di virtualizzazione delle nostre vite che era già in atto da molto tempo. Per lo meno da un decennio, ad essere onesti. Parlare di trasposizione in rete della nostra quotidianità e narrazione digitale delle nostre soggettività può sembrare quasi banale e scontato, per lo meno a chi è abituato a studiare questi processi o a cercare in campo artistico possibili riflessioni e prese di coscienza del fenomeno, ma il momento storico specifico sta evidenziando due macro-aspetti non trascurabili e per certi versi irreversibili: da un lato l’aumento inevitabile della quantità di persone che loro malgrado, esprimono loro stesse e la loro identità nell’elemento virtuale e dall’altro l’aumento del tempo, del numero di ore, secondi e minuti passati in rete nella frenetica tensione alla costruzione di “ponti” per alimentare la comunicazione dall’interno all’esterno delle nostre case. Personalmente, non sono e non sono stato esente da questa dinamica, soprattutto da questa, chiamiamola, tensione. Gli ultimi due mesi hanno visto una graduale e trasposizione di tutti gli elementi della mia vita, quelli professionali, sociali e relazionali in rete e il pensiero sin da subito è stato quello di provare ad ammantare di quanto più valore possibile questo passaggio. Guidarlo e non subirlo, trasformarlo in un processo partecipe e consapevole, più che in un lungo viaggio verso l’isolazionismo. Secondo Timothy Morton “gli iperoggetti (il riscaldamento globale, l’impatto ambientale, ma perché no anche i virus e la trasposizione in rete delle nostre vite), sono entità apocalittiche che sollevano il velo del pregiudizio e non ci catapultano in un aldilà, ma ci radicano saldamente nel punto in cui già siamo”. Ecco, direi che questo tentativo di consapevolezza è stato ed è ancora oggi ciò che mi guida nella costruzione dei miei personalissimi ponti: che sia per un corso da tenere in accademia, una riunione di lavoro, una navigazione online per motivi di svago o ricerca, la visione di un video o l’ascolto di un disco o un semplice aperitivo con gli amici, cerco di rimanere consapevole di ciò che questo periodo rappresenta e può insegnare, di come proteggere la mia esistenza e i miei interessi culturali e sociali nelle città in cui vivo, di come evitare di cadere nella trappola della liberalizzazione della nostra privacy e dei dati sensibili, di come difendere i nostri diritti sia in rete che nel mondo reale, di come monitorare l’impatto politico e sociale che l’uso e l’abuso della componente tecnologica e scientifica sta avendo in questo periodo sulle nostre vite e la nostra salute.
La sensazione che mi accompagna in questo periodo è duale: da un lato ho la percezione che la società civile saprà affrontare in modo creativo e resistente una forma di trasformazione (non parlerei di vera e propria rigenerazione, mi sembra eccessivo visto il peso specifico, seppur importante, di quello che sta avvenendo non paragonabile a mio avviso ad altri importanti eventi storici della storia dell’uomo) della nostra socialità e degli spazi comuni. Dall’altro, ho il timore che un certo tipo di politica reazionaria verso la cultura in senso ampio, di chiusura degli spazi sociali e delle conseguenti forme di protesta civile, possa avere il sopravvento in nome della paura e della salute pubblica. A tal proposito, penso che il primo passo da compiere non sia di trasformazione, ma altresì di pausa, di radicamento e comprensione di ciò che sta avvenendo e di massima scolarizzazione sui pericoli e le potenzialità offerte dalle tecnologie, di rete e non solo. Come suggerisce James Bridle è quanto mai necessario “aumentare l’alfabetizzazione attorno alle tecnologie di rete, creare l’opportunità per tutti d’interagire con tali tecnologie e, quindi, partecipare al loro design e agli effetti che ne conseguono, con un focus orientato verso l’etica e le conseguenze di queste discipline storicamente “apolitiche”. Penso che solo dopo aver raggiunto questa consapevolezza di massa, potremo rigenerarci in maniera opportuna: non possiamo più pensare di farlo senza, le tecnologie e la ricerca scientifica non possono più essere percepite come una commodity ma come un attore importante sul proscenio della nostra contemporaneità. E questo vale anche e soprattutto nel momento in cui gli spazi comuni sono quelli relativi all’arte e alla cultura, musei, istituzioni, teatri, gallerie, club e associazioni culturali: trasporre solo le attività in rete e sperare nello streaming non è la soluzione a mio avviso, tantomeno per l’economia e la sussistenza dei soggetti più piccoli, degli artisti, dei musicisti, dei performer. Serviranno politiche per l’arte e la cultura che non siano frutti solo di iniziative individuali e che considerino le potenzialità delle tecnologie e delle reti in modo maturo, per la costruzione di vere reti e progetti di valore.
Da diversi anni ormai, l'insieme delle evoluzioni tecnologiche, che siano minori o di primo piano (telelavoro, social network, acquisti su Internet, raccolti di dati), hanno avuto come conseguenza principale (o obiettivo?) la diminuzione dei contatti materiali tra le persone. Fenomeno questo, che non ha fatto che acuirsi nel momento dell’emergenza pandemica da coronavirus, nell’istante cioè in cui ci siamo resi conto quanto anche il contesto della ricerca scientifica – in relazione soprattutto alle tematiche ambientali - abbia ormai un peso fondamentale nelle nostre vite, in termini di prevenzione (si spera) o di cura (si prega). Del resto, come ha suggerito recentemente Michel Houellebecq “tutte queste tendenze che stiamo osservando in questo periodo esistevano già prima del coronavirus; si sono soltanto manifestate con una nuova evidenza. Non ci risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po' peggio”. A dire, anche io non penso che da domani saremo tutti improvvisamente attenti a ristabilire rapporti sociali più consapevoli, a un confronto tra uomo e pianeta meno incentrato sullo sfruttamento delle risorse ambientali, a un dialogo tra le specie meno spostato sul fronte antropocentrico, a un processo politico maggiormente democratico che difenda i diritti dei popoli e delle nazioni, in nome di una nuova era illuminata che metta al centro il pianeta e la collettività piuttosto che l’uomo (maschio, bianco, occidentale, capitalista). Non ripongo questa fiducia nell’umanità nella sua accezione ontologica: al contempo, ripongo enorme fiducia nella volontà individuale, nei collettivi di resistenza culturale, nella forza di riflessione dell’arte, nella ricerca indipendente a livello tecnologico e scientifico, nelle forme di relazione interdisciplinare tra professionisti di varia natura, che contribuiscano alla progettazione di nuove forme di pensiero e produzione che mettano al centro il corpo organico dell’essere umano, trasformato ed espanso da tecnologia e scienza, senza distinzioni di genere, stato sociale, diritto economico, geografico o di religione, nel rapporto con l’ambiente circostante inteso in forma ontologica come un ambiente al contempo naturale, tecnologico e relazionale.
In questo tempo mi sono reso conto quanto le nostre vite siano oggettivamente dipendenti da forme ossessive e capitaliste di intrattenimento, a cui si può rinunciare. Mi mancano i concerti e le mostre, il rapporto in aula con i miei studenti, alcune parti del mio lavoro curatoriale, l’abbraccio degli amici. E’ ora che il mondo dell’arte e della cultura si ripensi con riflessioni sul proprio futuro che non lascino indietro nessuno, soprattutto i luoghi e i soggetti più piccoli che fanno ricerca e sperimentazione, spesso ai margini dei grandi circuiti e dei grandi centri culturali.
Marco Mancuso - Critico, curatore e docente. Con l'osservatorio Digicult si occupa dal 2005 del rapporto arte, design, tecnologia e scienza
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