IL DOMANI TRA CRISI ED EPIDEMIA
Maurizio Piseri - Giugno 2020
In questi mesi segnati dall'emergenza sanitaria, "epidemia" e "crisi" sono le parole ripetute più di ogni altra dai mass media. L'una e l'altra sono termini abituali per chi, come me, ha l'avventura di fare il mestiere dello storico; due parole che spingono ad una riflessione, soprattutto quando sono associate ad espressioni come "evento eccezionale" o "nulla sarà più come prima". Sorvolo sulla "unicità secolare" di un evento tutt'altro che eccezionale e, semmai, atteso. Gli storici delle epidemie sanno bene che, a cicli di 30-40 anni, l'apparizione di un nuovo virus influenzale colpisce una popolazione priva di memoria immunologica. Se scorriamo l'ultimo secolo, oltre a trovare fenomeni corrispondenti (l'influenza di Hong Kong del 1968 e l'influenza asiatica del 1957) ben più drammatica fu la crisi sanitaria prodotta dalla poliomielite. La stessa influenza spagnola avrebbe avuto ben altro impatto sulla mortalità se non si fosse abbattuta su popolazioni soggette agli stress alimentari dovuti alla guerra e alle aporie dello sviluppo economico statunitense. Preferisco invece soffermarmi su come le parole "epidemia" e "crisi" sono interrelate a "nulla sarà come prima".
Partiamo da "epidemia". A meno che non stermini metà della popolazione (come capitò alla popolazione europea con la peste polmonare del 1348) nessuna epidemia ha mai cambiato il corso della storia. Certo, i libri di scuola ci hanno insegnato che il declino seicentesco dell'Italia fu causato dalla peste del 1630 – la peste manzoniana. Manzoni, oltre a intristire i nostri studi adolescenziali, ha validato diversi falsi storici, come il processo di rifeudalizzazione dell'economia lombarda o l'idea che bastasse un generoso temporale per sciacquare via la peste (semmai, l'ambiente umido e l'abbassamento della temperatura sarebbero stati dei grandi alleati della yersinia pestis). In realtà la peste portò ai contemporanei la consapevolezza che "nulla sarebbe stato come prima" … ma, quel "prima", andava cercato 20-30 anni indietro, quando, ancora inavvertito, inizio il declino. Certo, il CoViD non è la peste, ma in questo diffuso timore per il domani vi è la presa di coscienza della crisi dell'Occidente; una crisi non aperta dall'epidemia, ma iniziata ben prima. Una crisi diversa dalle crisi cicliche proprie del capitalismo, perché ha ridisegnato gli equilibri mondiali, con l'evidente primato asiatico e, soprattutto, cinese.
Siamo così entrati nel dominio della parola "crisi"; un termine carico di contenuti negativi nel sentire comune, che induce a una visione pessimista del futuro. Eppure la crisi può essere vista come un'opportunità. L'entropia di un sistema può liberare prospettive nuove di cambiamento. È indubbio che cambiare significa anche accettare la nuova collocazione dell'Europa nel panorama mondiale. Ed è indubbio che recuperare la dimensione sociale espressa dalla comunità può essere un punto di partenza per una "elaborazione della crisi". Del resto, il primato cinese si è manifestato proprio nella reazione civile e comunitaria nell'affrontare l'emergenza. Chi, di fronte a questo, ha evocato l'autoritarismo è vittima della sua idea entropica di "libertà", una "libertà" necrofila perché separa l'individuo dal mondo impedendogli di agire sulla realtà. La convinzione che la libertà coincida con l'individuo spiega perché il timore del "nulla sarà più come prima" sia declinato al singolare; è il soggetto atomizzato a temere che, per lui, nulla sarà più come prima.
La grande scommessa dei prossimi anni è la liberazione dell'homo consumens, dell'individuo atomizzato che si identifica nelle cose fino a oggettivare gli stessi suoi affetti. Lo stesso impegno sociale, quando presente, è riportato alla sfera dei propri interessi specifici (dall'ecologia all'animalismo, dall'appartenenza sessuale ai diritti dei migranti) secondo quel modello definito "gruppismo" da Immanuel Wallerstein. Ma questi stessi gruppi sono entità atomizzate in concorrenza tra loro per guadagnare o conservare posizioni nello scenario socioeconomico e politico; una competitività che fa passare in secondo piano lo stesso interesse che ne motiva l'esistenza. Riportare l'uomo alla sua vera natura di politikòn zôon, di animale sociale, è un problema pedagogico. Certo, non risolvibile dalle pedagogie cognitiviste e strutturaliste, oggi alla moda, che separano l'uomo dal mondo e dalla sua collettività. La pedagogia, per essere liberatrice, deve fondarsi sulla parola e, attraverso la parola, costruire una socialità in grado di riflettere e di agire sulla realtà, come ci insegna la lezione di Paulo Freire. È nella socialità che l'uomo capisce che non esistono problemi particolari e separati uno dall'altro, perché ogni sentire particolare deve risolversi in un sentire collettivo capace di condurre, attraverso il dialogo, ad una coscienza vera e autentica dei problemi dell'umanità.
Maurizio Piseri - Storico dell’educazione presso l'Università della Valle D'Aosta Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
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