Noemi Satta - Maggio 2020
Un’immagine legata all’opera d’arte relazionale Legarsi alla Montagna di Maria Lai del 1981, o meglio una sequenza di immagini costituisce, a mio parere, la migliore spiegazione di come lavorare sulle relazioni oggi, a fine maggio del 2020, e apre a molte domande.
(Legarsi alla montagna, Maria Lai, 1981, stazione dell’arte e raiplay)
Maria Lai inizia a lavorare trasformando la committenza: inizialmente infatti le viene chiesto di creare un monumento ai caduti, nel suo paese natale Ulassai, in Ogliastra.
Ma l’artista traduce questa richiesta in un processo, che coinvolge la cittadinanza e che utilizza le suggestioni che vengono da una leggenda locale (una bambina sceglie durante un temporale di non ripararsi sotto un costone di roccia, per seguire un nastro azzurro che improvvisamente appare nel cielo: seguire quel segno nel cielo la salverà dalla frana che sotterra gli altri, rimasti fermi ad attendere la fine del temporale) come a voler dare vita a un percorso collettivo di una comunità, che sceglie di strutturare un legante al proprio interno e infine tra la comunità stessa, il centro abitato e la montagna, franosa, che lo sovrasta. Alla lettera l’opera si svolge con il dispiegarsi di un nastro di casa in casa, dal paese alla montagna.
La dichiarazione d’intenti, per colloqui e interviste con i diversi cittadini, viene accolta, ma il progetto non decolla subito, anzi rischia di fallire: tante le inimicizie tra le persone, e il nastro non si riesce ad annodare, a fissare di luogo in luogo, di casa in casa. Maria Lai non si abbatte, ascolta e accoglie questa difficoltà, trova una soluzione. Tra le case dove non scorre buon sangue, il nastro sarà teso; viceversa tra le case dove i rapporti sono buoni, il nastro è annodato con un pane, segno proprio d’amicizia e di dono reciproco.
Vediamo queste immagini di donne, uomini e bambini, sorridenti, che collaborano in diverse operazioni e foto di nastri tesi o annodati, fino all’attacco del nastro, tramite degli scalatori, alla montagna.
Osservare queste foto, mette davanti a due domande: una di metodo, l’altra legata alle pratiche e alla loro applicazione alla situazione odierna.
Riprendiamo il tema di metodo, ricostruito dal racconto della stessa Maria Lai, brevemente e in modo non esaustivo, solo per segnalare alcuni passaggi che sono da un punto di vista dell’approccio metodologico fondamentali:
- immagine guida e ispirante alla base di una prima visione di futuro (la leggenda, il nastro salvifico, la bambina e il coraggio della sperimentazione);
- la trasformazione di una committenza;
- il coinvolgimento di un gruppo di persone che poi diventa il motore che trascina e coopera con l’artista;
- le difficoltà in mezzo al percorso;
- il conflitto (le relazioni sono anche conflittuali, non solo solidali) ascoltato e considerato come una parte del contesto;
- il conflitto non risolto, ma neanche annullato, piuttosto restituito e rappresentato, perché parte di quella comunità;
- la rappresentazione di tutto, anche del conflitto come della solidarietà, è parte dell’opera d’arte, del suo processo, del suo farsi.
Questo primo elenco rappresenta idealmente una premessa metodologica per qualunque operazione collaborativa che coinvolga gruppi di persone con obiettivi comuni o che anche semplicemente condividano spazi, socialità, attività.
Nell’ipotesi di dare vita oggi a un’operazione simile, ovvero di costruire un senso per lo stare insieme in un dato posto e in un dato contesto, emergono nuove e ulteriori considerazioni, ancora spaiate e slegate, traducibili in una serie di domande: se osserviamo il periodo appena trascorso in quarantena, infatti, rileviamo comuni esperienze e alcuni punti di crisi intorno agli spazi personali, a quelli collettivi, alle relazioni che instauriamo e al ruolo del corpo.
Le nostre case, in questi due mesi, hanno ospitato e continuano ad accogliere infinite funzioni e molte di quelle relazioni che si svolgevano prima in diversi luoghi della città: a casa abbiamo tutti o quasi trasferito la nostra sede di lavoro, avuto le meeting room, le aule scolastiche, i palcoscenici teatrali o musicali, il cinema, la palestra di yoga o di fitness, perfino lo spazio di prova per il coro e molto altro ancora. A casa e tramite i nostri schermi si sono svolte tutte le “relazioni” che vanno a costituire il senso di spazi che chiamiamo scuola, teatro, cinema, palestra, via, piazza e via dicendo: spazi che diventano luoghi solo se abitati da corpi e oggetti/contenuti in dialogo tra loro. Ma il principale mezzo di queste relazioni di senso è il corpo, il nostro e quello degli altri.
Corpo che è il tramite di scambi e di aggregazione e di vita per le città, nei luoghi deserti, abitati, abbandonati, rigenerati. Corpo che è il principale veicolo di disseminazione del virus, per cui ci viene imposto e suggerito un distanziamento fisico. Corpo a cui essere presenti, corpo che agisce in presenza nell’ambito delle arti (teatro, danza, arte performativa specialmente) sia quello dell’artista, sia quello del pubblico. Corpo che genera sospetto, ordinanze, dichiarazioni di necessità o comprovate motivazioni per autorizzarne la presenza in pubblico.
Il corpo è uno dei mezzi principali delle relazioni che vogliamo instaurare con il mondo, per abitarlo, sia che si tratti di spazio personale o di spazio pubblico e collettivo, sia che si tratti di presenza o di assenza (riflessioni su presenza o su assenza del corpo e dei corpi vengono dagli ambiti professionistici della danza – si vedano le note di Sanjoy Roy, Editor dello Springback Magazine - e se si pensa bene anche il nastro teso di Ulassai era lì a segnalare chi non voleva partecipare, chi non voleva dare vita al processo, il cui corpo non compare nelle fotografie).
E oggi, anche pensando al corpo, quali relazioni vogliamo e possiamo costruire?
Tra le persone, negli spazi, con gli oggetti (parola aperta a contenere materiale e immateriale, collezioni e concetti, ingombri e forme e significati)? E queste relazioni a cosa sono volte? Sapremo tenere conto di quanto è emerso dalla forzata chiusura e fermo economico? Sapremo dar vita a relazioni che superino e che considerino le diseguaglianze economiche e culturali? Sapremo considerare le barriere nuove nell’abitare con i corpi i luoghi pubblici, collettivi? Le barriere emotive? Quelle culturali?
Quali relazioni per agire in un contesto dove permangono e aumentano le diseguaglianze e dove diventa sempre più stridente l’elusione della questione ambientale (o della nostra sopravvivenza di specie sul pianeta da noi sempre più depauperato)?
Come costruire leganti di senso tra le comunità che si sono create/rinsaldate/sfaldate e tra esse e la “montagna”? Come riattivare i corpi? Quali storie vogliamo inventare e tramandare?
I processi partecipativi, sempre a rischio di retorica o di manipolazione, oggi più che mai sono da attivare solo se è riuscita una trasformazione della “committenza”, un adattamento degli obiettivi comuni, per considerare le nuove esigenze di coesione, ascolto e armonia. Relazione, relazioni, non è un termine neutro e neanche un termine scolpito nella pietra.
È un frastuono di domande, è un interrogarsi sugli obiettivi, è un agire rispettoso, è un riprendere in mano l’ombra, tenerla vicina, insieme al conflitto, insieme a chi non vuole prendere parte. È anche riprendere parte, stando nel corpo, in presenza. Che si tratti di trasformare un viale intasato di macchine, di dar vita a una rete di supporto per chi vive ai margini, di ridare linfa all’arte (che poi è il respiro che ci manca come corpo sociale), di tradurre il disagio del digital divide in un contributo al farsi inclusivo della scuola, di riabitare gli spazi e i luoghi collettivi di cultura e democrazia, di decidere se fare un cammino o tornare a ballare in piazza.
Riattivare le relazioni oggi è più che mai fatto di presenza, dubbi, ascolto, interazione, accoglimento, adattamento, reinvenzione.
“La leggenda, le paure della gente, la sua speranza di aprirsi a mondo, il bisogno di cercare una dimensione simbolica per esistere umanamente, possono essere raccontate con nastro da uno spirito collettivo. Le grandi cattedrali gotiche erano nate così. Il nastro non sarà più qui a testimoniare, nel Tempo, ma forse questa storia si racconterà, avrà fatto parlare di se'”
Maria Lai in AA.VV., “Ulassai da Legarsi alla montagna alla Stazione dell’arte” testo a cura di AD Arte Duchamp per Fondazione Stazione dell’arte, Cagliari, 2006.
Noemi Satta - Innovazione strategica e processi partecipativi
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