Olga Gambari - Maggio 2020

C’è qualcosa di tellurico che si sta agitando sotto la pelle di ognuno, nel profondo. Sotto la pelle delle case, delle strade, del mondo.
Un’energia pervasiva, ignota, potente. Che a volte appare nei sogni, non chiara, non destinata, non formata. È un’elettricità, generativa o implosiva, non si sa. Io non lo so, ma la sento. All’inizio non la sentivo, la sensazione era diversa, devo essere onesta, di pace, quella di una naufraga finalmente gettata a riva, fuori dalla nevrosi, quella mia, quella collettiva, che sono la stessa cosa, che sono ruota nella gabbietta, alienazione. Ci sei dentro, e non pensi, non scegli. C’è bisogno di tempo, per pensare, per scegliere. E agire.
Ma se il tempo non ce l’hai. Se non ce l’hai neanche per renderti conto che non ce l’hai. Stai. Vai avanti.
E invece, all’inizio, è stata una felice disconnessione, anzi, una convalescenza. Banale da dire, perché molti, moltissimi, l’hanno vissuta così. Una comunanza di percezione. Provare sollievo dall’essere obbligati a fermarsi, a rimanere soli, a respirare, isolati da tutto e tutti. Stare nel silenzio. E ascoltarsi, ascoltare le voci del mondo (che è anche un libro meraviglioso di Robert Schneider) che già c’erano o che ritornavano. Gli animali, per esempio, in giro per le città. È pazzesca, nella sua semplicità, questa sensazione che appartiene chiaramente a un inconscio collettivo. Folgorante, come quella di qualche mattina fa: c’era un sole, una luce di una tal limpidezza che aveva cristallizzato il mondo in un tempo che sembrava senza tempo, che poteva essere il tempo neolitico, dei greci, di Macondo, degli oracoli... Il tempo perfetto, immobile, dove pareva che tutti i suoni dei secoli si fossero armonizzati in una tonalità neutra e panica, che era sentire di essere parte del mondo. Da commuoversi.
Forse quella mattina è cominciata la vibrazione, il preannuncio di un risveglio non solo a livello inconscio ma anche, finalmente conscio? Quel senso di pace dei primi giorni si è iniziato a trasformare in sottile disagio, interferenza, angoscia trasparente.
Io spero che questo tremore tellurico continui, risalga per esplodere come lava di colori, fuochi d’artificio ed energia vitale dopo (quando dopo realmente sarà): l’esperienza di aver compreso, anzi, percepito con la mente e il corpo, la condizione del prima, quell’essersi persi e dispersi. Nel nulla. E di aver dimenticato, guastato, abbandonato, oltre sé stessi, troppe altre cose insieme. Questo tempo sospeso e congelato in cui siamo, quindi, è un vuoto apparente. Può e deve essere ristoro e cura. È sicuramente un incontro, un rincontrare sé. E solo da qui può partire l’incontro con gli altri, che sono persone ma non solo, sono l’habitat di cui facciamo, siamo parte. Cose, animali, vegetali, minerali. Visibile e invisibile. Spesso l’indicibile, non meno stupendo e prezioso di quanto lo siano le parole. L’arte.
Qui, credo, possa esserci il segreto di come rigenerare e rifondare, verbi centrali del nostro presente e del nostro futuro. Fare in modo che questo momento, questo dopo prossimo venturo sia finalmente una fine e finalmente un inizio. Allora consideriamo individuo e comunità non parole di moda da infilare in ogni dove, ma come tutto ciò che ci riguarda. Io, individuo, sono prima di tutto comunità. E poi quello che c’è dentro casa mia, nella mia borsa, nel mio frigorifero. E poi sul mio pianerottolo. E poi fuori per strada. E poi fino dall’altra parte del mondo. Comunità è gentilezza, accoglienza, attenzione, guardare vedendo, ascoltare cercando di capire, rispettare, imparare ogni giorno. Farlo verso sé stessi per poi verso l’altro. Un atteggiamento che concerne anche il rieducarsi. Così come il progetto politico e culturale di educare le giovani generazioni. Magari provando con l’utopia concreta dell’anarchia, cioè aspirare a essere consapevoli, autodeterminati e responsabili per scelta e non per imposizione, abitudine, imitazione e sistema. Così si potrà essere insieme indipendenti come individui e inter-dipendenti come modello sociale e umano.
Quindi, aspettiamo, speriamo che il vulcano erutti. Ma senza violenze ed estremismi (l’orizzonte si sta puntinando di nuvolaglie fumose provocate de incendi dolosi), parole gridate e mortificate dentro a slogan, convogliando la forza in energia generatrice, catartica. Oltre che poetica. Ogni passaggio storico ha la fragilità e l’incognita di un bocciolo. Teniamo il nostro in un nido di mani.

Olga Gambari - critica e curatrice d’arte contemporanea, fondatrice di Arte Sera, coordinatrice del Festival Nesxt di Torino
#pensierieprogettidipersonecuriose

Opera di Scarlett Rouge, ph Olga Gambari


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